Un Paese messo in ginocchio da un virus chiede aiuto a un gruppo di esperti. Mi pare un concetto che non fa una piega. E così è nata la “squadra Colao” composta da 17 persone e altrettanti curriculum sicuramente di profilo. Ma, ed entro subito nel merito, quale profilo per quale profilo di Paese in futuro? Perché questa rimane nella mia testa la domanda. Mentre l’angoscia per la “fase 2” sta salendo come sale tempestosamente il latte quando bolle, in me sta salendo l’angoscia per vedere garantite quelle diversità di approccio e culturali che, ritengo, abbiamo bisogno più dell’aria non tanto e non solo per ripartire, ma per “durare” e galoppare sul cavallo giusto, quello del cambiamento di approccio.
Qui non si tratta di rimettere in moto l’auto, ma di farla poi circolare su nuove strade, non quelle di prima semplicemente con una miglior regolazione del minimo. Molti, la maggior parte, dei profili impeccabili della squadra hanno a che fare, almeno così sembra, con un’economia che era quella delle acquisizioni aziendali, delle corporation, delle sedi nei Paesi a fiscalità agevolata, insomma di quella che, a mio modesto parere, era un pezzo del problema e non della soluzione. E quindi bisogna fare attenzione. Nulla vieta a tutte quelle persone che conoscono a fondo i meccanismi perversi di una certa economia spavalda e aggressiva di proporci altro e di riuscire a farlo proprio perché conoscono le chiave oscure di quel mondo. Ma devono rassicurarci e darcene prova, altrimenti il beneficio del dissenso, per usare un concetto caro a Martha Nussbaum, non è solo possibile, ma legittimo. È una questione di responsabilità pubblica.
La ripartenza di questo Paese deve fare i conti con questioni che non sono state mai in cima all’agenda di certi approcci economici e finanziari. Dobbiamo fare i conti con i cambiamenti climatici (e non vedo nessuno tra i 17 che è un super esperto di questo) e con un Paese che, ed è cosa indiscussa, è considerato da tutto il mondo il regno della bellezza. Ma, sappiamo bene, che non serve a nulla la bellezza se non ce ne prendiamo cura, se non la rispettiamo, spesso mettendo da parte la retorica del compromesso (accelerazione al disastro come dice papa Francesco nell’Enciclica). Solo così potremo, non solo salvaguardarla, ma anche immaginare di generare sana occupazione con lei al fianco. E quando dico sana dico sana per i lavoratori, sana per l’economia e sana per l’ambiente, senza sconti per nessuno. Però tra loro non vedo esperti in patrimonio culturale, in arte, in turismo sostenibile. In questo lockdown abbiamo visto le acque dei fiumi tornare limpide, l’aria delle città respirabile e i passeri tornare in città. Qualcuno sogghignerà davanti a queste cose, invece per me e non solo per me sono piccoli indicatori di una grande natura che prima era perseguitata da un certo modello di sviluppo aggressivo e che si auto-assolveva dietro la necessità di non poter fermare né rallentare il motore degli affari, pena il dissesto economico finanziario (che poi puntualmente è arrivato lo stesso e quindi era altro a cui bisognava portare attenzione) o che si nascondeva dietro facili etichette di finta o debole sostenibilità che, come prova la realtà che abbiamo sotto il naso, non ha portato nessun cambiamento di approccio culturale nel Paese. Ricordo che per ben due volte sono stati presentati i risultati pessimi dei goal di sostenibilità e per altrettante due volte la reazione delle forze economiche e politiche è stata semplicemente “do not disturb”, tipo i cartelli che si mettono fuori dalle porte di hotel. Mi chiedo quindi se la maggioranza di loro (almeno otto) si commuove davanti alle acque limpide del Po al punto da dire, pugni sul tavolo, che la ripresa deve avere un solo colore: verde. Ma verde sul serio. Io non lo so se loro hanno questo chiodo fisso, e chiedo rassicurazioni. Abbiamo un Paese piegato dallo spopolamento e dalla disuguaglianza (che non è solo quella di genere, ma anche quella generazionale, ma anche quella di accesso alle conoscenze, ma anche quella di uguale cittadinanza delle tematiche ambientali e sociali dentro quelle economiche e finanziarie, e così via) che giungono da decenni in cui abbiamo mal-trattato un tessuto territoriale già fragile di suo con politiche di malgoverno del territorio e privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita che non hanno eguali in Europa. Abbiamo chiuso uno, se non due, occhi alla corruzione, all’elusione, alla deroga su tutto. Un Paese che ha sistematicamente messo in piedi un’operazione di negazione e svilimento delle sue aree interne e artigiane in nome di un urbanesimo tutto e solo metropolitano, tutto e solo fatto di grandeur, velocità e grandi profitti e rendite (Milano e Lombardia in testa, ahìnoi).
Abbiamo offeso sistematicamente la ricerca pubblica, la sanità pubblica, le amministrazioni pubbliche dando loro i peggiori epiteti eppure oggi sono loro a salvare il nostro privatizzato Paese dai colpi bassi di un virus, peraltro figlio della globalizzazione (non dimentichiamolo). Abbiamo dato campo a una agricoltura enormemente insostenibile e inquinante in nome di cosa? Abbiamo trasformato le piazze dei nostri comuni in eventi, sagre, parcheggi in nome dell’attrattività e del consumo come se non fossimo capaci di null’altro. Ecco, di tutto questo e di tanto altro che non ho ora lo spazio di elencare vorrei ricevere da quella task force delle rassicurazioni che non ci ricascheremo. Ma non cerco parole di compromesso (altro tema divenuto insopportabile), bensì parole coraggiose e di svolta. Noi dobbiamo riuscire a impostare un futuro nel quale alcune economie terminano il loro corso e altre, davvero sostenibili e civili, si sviluppano prendendo il loro posto. Come vogliamo scacciare il virus e vaccinarci tutti, dobbiamo scacciare il virus dell’insostenibilità e vaccinarci tutti a un modello diverso. E tutto questo deve avere in cima ai pensieri l’ambiente e l’uguaglianza sociale. Dobbiamo riuscire a generare occupazione intelligente con i nostri caratteri, quelli della molecolarità territoriale, della bellezza, del sapere artigiano, dell’ambiente. Dobbiamo riuscire a crescere in attitudine civica e impegno civile. Abbiamo un Paese che ha bisogno di manutenzione e messa in sicurezza da decenni e qui possiamo fare economie intelligenti. Abbiamo un Paese con un piano energetico non all’altezza delle sfide e qui possiamo fare molto.
Abbiamo un Paese cannibalizzato dalla frammentazione amministrativa e da una continua confusione di ruoli e competenze e, in questa confusione, a fare le spese sono sempre i più deboli e l’ambiente e il paesaggio. Abbiamo un Paese con una politica dei trasporti che ha bisogno di essere ripensata e verso cui le ipotesi che si stanno profilando di ritorno massivo all’auto privata possono solo ucciderlo definitivamente assieme a quel poco di cultura della mobilità sostenibile che eravamo riusciti a generare. Abbiamo un paese che non sa fermare il consumo di suolo e la spesa pubblica che si porta dietro perché pensiamo ancora che cemento = ricchezza. Abbiamo gente che non ha la casa, che vive ai bordi di città dove mancano servizi, manca bellezza, manca civiltà ed è lì che possiamo e dobbiamo agire per primi. Abbiamo un Paese con un’urbanistica allo sfascio e predata dalla speculazione immobiliare e mercantile che ha bisogno di essere ridisegnata perché tutto quello che pensate ha bisogno del territorio. Non c’è solo da ricaricare la batteria per far ripartire un motore che era rimasto fermo per troppo tempo, non c’è solo da rimettere le auto in strada a distanza di sicurezza, c’è da cambiare modello e io chiedo semplicemente a quella task force di dichiararcelo con assoluta chiarezza e coraggio, tranquillizzandoci. Chiedo in fondo di far tesoro degli inciampi del passato per non farli nel futuro, anche se questo, lo so, sarà dolorosissimo per chi è abituato a certi comportamenti e certe visioni. Non sarà mai possibile cambiare rotta se non siamo disposti a riconoscere fino in fondo gli errori commessi: il mio appello è di lavorare a questa presa di coscienza, anche per onorare la loro stessa credibilità. Solo ora, sfiniti ma in fondo un po’ più consapevoli di prima, possiamo accettare qualcuno che ci dice di cambiare. Diversamente tutti torneremo alle faccende di prima e, peggio, ringrazieremo quella stessa economia speculativa che un attimo dopo avremo smesso di riconoscere come il colpevole di un attimo prima. Ci sono tutte le premesse per la sindrome di Stoccolma: noi agli arresti domiciliari che, per paradosso, ci innamoriamo del nostro carceriere. Vi chiedo di darci segnali chiari della vostra sensibilità, della vostra poetica sociale e ambientale e di quale approccio diverso intendete perseguire. Tutto qua. Per il resto, buon lavoro.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)
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