Pronti.
Partenza. Coda.
La S.S. 67 non perdona. Ti obbliga a
metterti in fila. In direzione Firenze, al mattino, anche per i più previdenti,
del tempo non ne rimane. Appena usciti da Pontassieve, inizia l’abitato di
Sieci, povero di rotatorie e rosso di semafori. Sempre serpeggia una lunga e
lenta processione di auto. Prima che la strada inizi a costeggiare l’Arno,
appare il muro della Fornace, alto, fatto di sassi e mattoni.
La costruzione invece si staglia più indietro,
al di sopra del livello del muro. Alla vista offre una pianta d’edera, enorme,
che dal terreno sale fino al tetto, 15 metri più su. Vegeta su un intero angolo
del fabbricato, come per mangiarselo. Per i pendolari fa parte di una routine visiva
giornaliera. Qualcuno allunga ancora la testa, mettendo in pericolo il
parabrezza. Quando piove, e tutto si fa grigio, ricorda certe costruzioni industriali
inglesi, ma con più grazia. Al sole brilla di maestria italiana.
La fornace. Dopo venti anni in sua
compagnia, ancora mi colpisce al cuore.
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La Fornace - Gennaio 2017 |
Tutto qui parla di lei, ma ormai in
pochi lo sanno. La fornace è ovunque. Se
scavi tra le vecchie fondamenta delle case, emergono cocci rotti. La terra e il
cemento si mischiano al rosso del gres e del cotto. I “rotti” venivano
accumulati e, fino a quando le normative non l’hanno considerato rifiuto
industriale, erano usati come materiale di drenaggio o riempimento. Il paese
poggia sulla fornace.
Anche alcune vecchie vigne delle
colline circostanti, allineate su pendii scoscesi, conservano, ai loro piedi,
cumuli di trito nascosti in profondità. L’acqua li trova e se ne va veloce,
lasciando asciutte le radici. Lentamente, l’argilla, saldata e sterilizzata dal
fuoco, torna a esser terra.
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Muro perimetrale esterno |
La
fornace è la storia del paese di Sieci. E il muro è il confine di un mondo ora
nascosto. Ciuffi d’erba, qualche rovo in alto, nero di scarichi d’auto ferme
impazienti. Ti sovrasta, e ti viene di pensare al peggio, al crollo imminente.
Ma il nome lo sminuisce. Perché è barriera e diga. Non protegge dall’insidie
esterne, ma è custode dell’interno. Abbraccia le vasche che circondavano la
fornace, e ne tratteneva l’acqua. La fornace risucchiava migliaia di metri cubi
d’acqua, diventava palafitta, castello sulle acque. E il muro era bastione.
Alla sua altezza si proporzionava la sua base. A ogni metro di costruzione in
altezza, si allargava di uno all’interno. Diveniva sprone inamovibile.
Ridicolizzava le paure di chi non lo conosceva, e vedeva alti laghi d’acqua
marrone premere con forza per uscire e invadere la strada. Muro sul lato
esterno, muro sul lato interno, cemento e sassi di massicciata per il
riempimento tra i due.
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Pieve di S. Giovanni a remole |
Andrea
è la memoria storica della fornace. Ci ha vissuto intorno fin da bambino, l’ha
respirata e, entrato da ragazzo come giovane tecnico, ci ha trascorso tutta la
sua vita lavorativa. Lo interrogo con curiosità. Mi risponde con entusiasmo e
dovizia di particolari. Quando parliamo del muro, sorride: «Durante
l’alluvione erano tutti terrorizzati. Pensavano che potesse crollare. Ma
“quello”, può reggere una spinta enorme, con la base che ha.
È
costruito per reggere la spinta dell’acqua. Interna o esterna poco importa».
È il biglietto da visita della fornace. A
Sieci, prima di lei, soltanto la Pieve. Un raro caso di Romanico Lombardo in
Toscana. Un romanico settentrionale. Come del nord erano originari anche i
proprietari delle terre circostanti in quel periodo. Sembra che il fondatore della famiglia
Albizzi, Raimondino, fosse tedesco e che si fosse stabilito in toscana verso la
fine del dodicesimo secolo. Inizialmente ad Arezzo. I discendenti si
sarebbero poi trasferiti da Arezzo a Firenze. E i fiorentini, chissà se per
spregio, gli avrebbero limato una zeta dal nome. Sarebbero comunque diventati
una delle famiglie fiorentine più facoltose e potenti, signori anche delle
terre circostanti la Pieve di Remole. Proprietà che aveva come fulcro la
fattoria Albizi di Poggio a Remole, che a sua volta controllava le numerose
coloniche della zona.
Qui
inizia la storia della fornace. In quell’angolo di terreno sabbioso, delimitato
da un lato dal torrente Sieci e, dall’altro, dall’Arno. Un angolo pressoché
retto, pianeggiante ma ai piedi delle prime ripide colline. In un punto
imprecisato del tempo, ma sicuramente nella seconda parte del diciottesimo
secolo, l’esigenza di manutere le proprietà e gli immobili della zona, spingono
il fattore di Poggio a Remole, ad avviare una produzione di laterizi. Nasce
quindi un’autoproduzione, proprio in questo fazzoletto di terreno, dal quale si
accedeva facilmente alla “mota d’Arno”,
e nel quale si poteva facilmente far confluire il legname, “stipe” e “fastelle” per la cottura di mattoni e di tutti i manufatti
necessari.
Mentre
aspetto che la fila si muova, ripenso alle giornate trascorse a montare
pannelli per campionature. Li, sotto quell’edera, nella parte bassa del vecchio
fabbricato, accedibile fino a pochi anni fa, ho lavorato nel lungo corridoio
che aveva come parete laterale, il fronte lungo dell’ellisse del forno Hoffmann.
Di quello che ne rimaneva. Una parete inclinata, in mattoni, spessa alla base circa
un metro, nella quale si aprivano le aperture a volte delle camere del forno.
Una struttura bellissima e affascinante. Sopra di me, il moncone della
ciminiera.
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Plantario del Paganelli |
Piastrelle multicolore su laminato nero, per clienti di tutto il
mondo. Nero
come il fondo del nuovo, e ultimo, marchio dell’azienda, sul quale spiccava una
“B” bianca e la scritta “Brunelleschi
1774”. Bel numero, bel marchio. La fornace è vecchia. Qualcuno riportava
che la fornace, uscita dalle esigenze aziendali, aveva fornito il materiale per
la costruzione del palazzo pretorio di Pontassieve, proprio in quell’anno. Non so quale fosse la fonte, o se fosse solo
una trovata pubblicitaria.Ma
il periodo storico è quello. Certo è che, nel 1761, il “plantario” del Paganelli, una raccolta di suggestive mappe della
zona redatte da dall’omonimo e benemerito cartografo, non riporta notizie
relative ad una fornace ubicata in questi luoghi. Un tabernacolo, osteria e
case. L’inventario dell’archivio storico della Famiglia Albizi invece riporta,
nel 1786, le “Entrate e uscite delle
fornaci delle Sieci di Filippo degli Albizi”. Quindi, già in questi anni si
tiene l’amministrazione di una vera e propria attività produttiva, anche se
ancora lontana dal poter essere chiamata industriale. Da quest’anno in poi la
storia prende forma e si evolve.
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Estratto del Catasto (1820) |
La manodopera era comunque saltuaria,
e reclutata secondo le esigenze della Fattoria. L’antico lavoro a chiamata,
tanto di moda oggi. L’unica presenza costante era quella del “mastro fornaciaio”. Una figura che ormai
oggi è in via d’estinzione, e sopravvive solo nelle piccole fornaci
di oggetti
e laterizi fatti a mano, cotti ancora con metodo tradizionale. Le prime tracce
“pubbliche” dell’esistenza della
fornace si trovano, invece, sulle mappe del Catasto Generale toscano del 1820;
si notano due edifici principali che erano sicuramente le due fornaci, una per
la produzione di laterizi e calcina, l’altra per la produzione di quello che
era chiamato “lavoro sottile”.«Quando
ero bambino – mi dice Andrea- scavarono accanto al ponte della ferrovia,
subito dopo che lo passi, sai? Ecco, a un certo punto trovarono uno strato di
terreno tutto bruciato. Abbastanza spesso. Ed io, cercando di rimettere insieme
la storia della fornace, ho sempre pensato che in quel punto ci fosse stato il
vecchio forno, il primo. Proprio in quel punto». In ogni caso di quel
nucleo originario non è rimasto niente, anche perché proprio in quella
specifica zona avverrà il primo passo verso l’industrializzazione. Il 14 gennaio 1842 muore il marchese Amerigo
degli Albizi, e si estingue il ramo fiorentino della famiglia e il patrimonio
passa in mano al ramo francese della stessa. Nei ritratti dell’epoca, Vittorio
degli Albizi, se si esclude la retorica delle pose usuali a quel tempo, colpisce
per lo sguardo attento, poco impomatato, curioso.
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Busto e Targa a Sieci |
Alle
spalle mi sono lasciato la piazza del paese, dove è collocato il suo busto e
una lapide commemorativa. Il busto non
gli rende giustizia, ma la lastra di marmo, in questa piazza devastata e resa
asettica dall’ultima ristrutturazione, riporta le indubbie doti in campo
agricolo e produttivo di Vittorio, “collocata
innanzi la scuola perché la nuova generazione dai primi anni apprenda le virtù
dell’estinto”. Virtù che erano molteplici e sempre vincenti. Fu il primo a
introdurre nuovi metodi di viticoltura per l’incremento della produzione nelle
fattorie di proprietà della zona.
Quando
morì, il 14 marzo 1877, la proprietà fu rilevata dalla sorella Leonia Anna,
moglie di Angelo Frescobaldi. Vittorio non si era mai sposato, ma le vigne
sulle quali aveva profuso tanto impegno e spirito innovativo, erano in buone
mani. Le vediamo ancora oggi, tutt’intorno, ben drenate.
E la Fornace? La fornace nel 1877 era
già ultimata ed era diventata la “fabbrica
delle terre cotte posta alle Sieci”.
Pochi pedoni alle Sieci. La strada
prevarica tutto, con il suo rumore e i suoi scarichi. Fino a poco tempo fa
ancora vedevo gli anziani fuori, sulle panchine. Con qualcuno avevo anche
lavorato. L’estraneità alla storia del luogo dei pochi passanti ancora mi
stupisce. Perché la fornace ha fatto crescere questo paese. Nel 1833 vengono
censiti 766 abitanti. Nel 1840 sono già 800. E così nel tempo, con incremento
costante. Intanto Vittorio degli Albizi decide d’importare nuove tecnologie
dalla Francia, con le quali dare inizio alla produzione di speciali embrici di
copertura, in seguito chiamati "marsigliesi”.
Insieme alla tecnologia aveva assunto anche maestranze specializzate francesi,
proprio per avviare la produzione. Da qui il nome degli embrici.
È il 1850, ed è l’anno della
costruzione del primo nucleo industriale. Proprio al crocevia tra i due fiumi,
sul sito della primitiva fornace. Di questa parte, adesso non rimane niente,
abbattuta dalla guerra, e dai danni di guerra. Solo la ciminiera è in piedi. Ha
qualche piccola crepa in alto, ma svetta ancora su tutta la sterpaglia che la
circonda. In un angolo, nascosto dentro un piccolo capannone, ci sono ancora
pochi metri del primo forno Hoffmann.
«Hai visto che ha due buchi in basso invece di uno? Uno era per il ricircolo dell’aria, ma l’altro l’avevano previsto per il gas. Pensa un po’. Ma credo che non abbia mai funzionato e sono andati sempre a lignite».
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foto aerea 1929 |
Vedo Andrea che mentre parla ha gli
occhi illuminati.
Nel 1860 la fornace ha 24 addetti
fissi, e continua ad espandersi. Nel 1870 sorge il secondo nucleo, quello che
si vede adesso dalla strada provinciale. Il castello sulle acque. Alla
conduzione dello stabilimento viene nominato l’ingegner Leonida budini, che
incrementa fortemente la produzione e, soprattutto, la diversifica.
Grazie anche alla nomina di Firenze
come capitale d’Italia. Non proprio l’ultimo arrivato, l’ingegner Budini.
Membro del collegio degli architetti e degli ingegneri di Firenze, era stato
parte attiva nello studio e nella verifica della progettazione di Firenze
capitale e dei lavori d’ammodernamento viario del capoluogo. E anche la fornace
era un piccolo capolavoro.
«Il muro. Ti ricordi vicino al
porto, quei tubi in cotto all’interno del muro? Il muro che hanno troncato
negli anni ’50 per fare i nuovi capannoni! Ecco, quei tubi portavano l’acqua
motosa, “le torbide”. Aspiravano con le idrovore e l’acqua scorreva nel muro. Poi
c’era un sistema di serrande, e decidevano loro quale margone allagare». Il
“porto” era una vasca in muratura,
provvista di fondo, nella quale accedevano i “barchetti” carichi di “mota
d’Arno” o di rena, usata come smagrante. Dopo averla fatta riposare a
lungo, con l’argilla ottenuta, si producevano mattoni. Mentre per le tegole “modello Pelago”, la mota d’Arno veniva
mischiata con il Galestro. Per uno strano scherzo del destino, questo
materiale, era estratto dal torrente Vicano, luogo vicino al quale terminerà la
storia della Fornace. Questo tipo di lavorazioni avvenivano nel primo nucleo,
quello alla confluenza dei fiumi. Nell’altro, il più recente, la produzione era
varia. Dopo essere stati allagati, “i
margoni”, che altro non erano che enormi vasche all’aperto, si
prosciugavano, lasciando sul loro fondo uno strato di argilla. Era poi raccolta,
trasportata ai piani bassi dei capannoni, lavorata e spostata in alto per
l’essiccazione. Entrambi i capannoni avevano il loro forno ellittico Hoffmann.
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Cartolina 1929 |
«Li vedi nella foto quei barchetti
con i quattro scompartimenti? E guarda quella specie di barca con il tetto. È
una draga. Avevano pensato a tutto. Se c’era una piena potevano far entrare
anche l’acqua dal porto. In qualsiasi momento, per un guasto o per qualsiasi
esigenza, potevano prendere la draga e aspirare vicino al fondo, riempendo
quegli scompartimenti d’acqua motosa. Poi la portavano nel porto. Non
rimanevano mai senza materiale.».
Andrea è un tecnico vecchia maniera,
di quegli che, una volta finita la scuola, riceve in regalo, dai genitori, il
regolo calcolatore e il calibro. Mi affascina, facendomi scoprire cose che ho
avuto per anni davanti agli occhi e non capivo.
«Quelle sono le piazze dei mattonai.
E non pensare che fossero tutti dipendenti quelli che formavano e mettevano ad
essiccare i mattoni. C’era chi faceva il cottimista, e rivendeva i mattoni
crudi alla fornace». Nelle foto dell’archivio Alinari si vedono bene le
piazze dei mattonai.
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Le piazze dei Mattonai |
Adesso
il porto è interrato dalle piene e semidistrutto dalla ristrutturazione degli
anni 50. La statale è stata allargata, un muretto la delimita, e la striscia di
sabbia rimasta, serve solo alle nutrie. Nessuna traccia rimane.
Il 6 settembre 1878 viene inaugurata
la nuova stazione ferroviaria delle Sieci, nata proprio in funzione della
fabbrica. Fino ad allora la rete ferroviaria, costruita nel 1862, aveva
transitato accanto alla fornace. La Regia Rotabile Firenze –Arezzo.
Una mattina, in estate, quando ancora
ero magazziniere, una distinta signora oltrepassò il cancello. Si avvicinò,
aspettando che finissi con il carrello elevatore. Poi estrasse dalla borsa un
pezzo d’embrice, con la scritta “fornaci alle Sieci”. Voleva sapere se ne
avevamo ancora; doveva ristrutturare il suo tetto. Le dissi che erano
tantissimi anni che non li producevamo più, e che non potevo aiutarla. Magari
poteva tentare con un fornitore della sua zona.
Sorrise. «Sono in vacanza in Italia ed ho ereditato una casa dai miei
genitori. Ma la casa è a Rio de Janeiro».
Erano arrivati lontani i marsigliesi
delle Sieci. Caricati sui treni, avevano attraversato l’oceano. Quando
camminavo nel piazzale di carico, ogni tanto l’asfalto si screpolava in lunghe
linee dritte. La sotto, ancora c’erano le vecchie rotaie che consentivano
l’accesso dei vagoni alla fabbrica. Ora risentivano del peso della lunga fila
di autotreni che le calpestavano.
Nel 1881 gli Albizi-Frescobaldi vendono
la fornace alla “Società autonoma fornace
alle Sieci”, della quale comunque facevano parte, come si rileva dai libri
contabili della fornace, presenti fino al 1900. Questi sono gli anni di un ulteriore
sviluppo tecnologico, con l’installazione di due motori a vapore fissi con una
potenza di 140 cavalli, e l’installazione di 19 macchine per la produzione dei
laterizi. I dipendenti variano, a seconda della stagione, tra gli 80 e i 120
uomini, una ventina di ragazzi e circa 30 donne.
«In pratica era un mondo
autosufficiente. Certo, compravano il carbone, la lignite e dovevano procurarsi
il galestro, ma per il resto erano autosufficienti. C’era la stalla, perché la
mota la trasportavano, dai margoni ai capannoni, con dei carretti tirati da
asini e cavalli, e quindi c’era lo stalliere. Vedi quella piccola ciminiera?
Quelle erano le caldaie e il caldaista era una delle figure più importanti
dello stabilimento. C’era l’officina, con i meccanici. C’era tutto».
La fila d’auto si muove e l’incrocio
s’avvicina. Sono praticamente sopra il porto, nascosto sotto la strada. E’
stato abbandonato alla fine della seconda guerra mondiale, insieme ai margoni.
Nel 1920 fu introdotta la produzione delle cosiddette Tomettes, piastrelle
esagonali per pavimenti, mentre continuava la produzione di mattoni,
marsigliesi e torrette da camini. E gli occupati salirono a 400. E’ questo il
periodo in cui comincia l’impatto ambientale maggiore della fornace sul paese
circostante, causato dall’uso del carbone e della lignite. La cosa andrà poi a
peggiorare negli anni ’30, quando iniziò una riconversione dello stabilimento
che portò a una produzione di gres rosso, ottenuto tramite pressatura a secco.
Una tipologia di lavorazione che sprigionava notevoli quantità di polvere.
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Ciminiera a fabbrica attiva |
Spunta
la cima della ciminiera, e sono giunto quasi all’incrocio. Non emette fumo da
quegli anni. Il forno fu spento proprio in quel periodo, esaurendo la
produzione di mattoni, per altro di scarsa qualità. E poi arrivò la guerra. La
fabbrica sequestrata e trasformata in deposito munizioni.Fu
bombardata, e le bombe cadevano proprio qui, nel tentativo di distruggere il
ponte sul fiume Sieci e d’interrompere la statale. Proprio oltre questo
incrocio, c’era una grande segheria, rasa al suolo da un bombardamento.
Alla
fine della guerra, riprese la produzione del gres Rosso, ancora con il vecchio
forno che oramai era datato.
Fu intrapresa quindi l’ennesima
ristrutturazione, culminata nel 1956 con l’accensione del primo forno a tunnel
e con l’adozione di moderne presse tedesche Dorst.
«C’era una scelta molto attenta
del prodotto. Il gres poteva variare di colore a seconda dell’intensità della
cottura. Quando tendeva al violaceo, significava che era stato sottoposto ad
una temperatura più alta. E quindi veniva scelto anche in base a questi toni.
Sai che facevano con lo scarto? Lo sistemavano per bene, nelle strade interne,
in verticale, come fondo carrabile. Ma si trattava sempre di piccole quantità».
Nel 1962 viene avviato un secondo
forno a tunnel, con il conseguente spegnimento dell’ultimo Hoffmann, il più
recente, ormai obsoleto. Nel frattempo sui vecchi margoni, vengono realizzate
tettoie e strutture utili alla nuova conformazione dello stabilimento.
Nel 1976 inizia il declino del
mercato del gres smaltato e l’azienda opera l’ennesima riconversione aziendale,
che culmina con il passaggio dello stabilimento alla società “Ceramiche Brunelleschi”.
Andrea già ci lavora da 8 anni.
Attraverso una serie d’investimenti
per l’acquisto di nuovi macchinari, e dopo diversi anni di studio, intorno al
1980 viene avviata una produzione di cotto smaltato. La base è in argilla
imprunetina, trasportata ogni giorno alle Sieci con camion, estrusa e smaltata
in verticale. Insieme allo smalto è miscelata una speciale colla, che consente
allo smalto stesso di non scivolare dalla piastrella in verticale. È un
successo clamoroso, tanto che, negli anni successivi, le aziende concorrenti,
venderanno i propri prodotti dichiarandoli “tipo
Brunelleschi”.
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Ingresso all'andito |
Nel
1991, al mio ingresso in Azienda i dipendenti sono 127 e il fatturato sfiora i
40 miliardi di lire. I vecchi capannoni, che negli ultimi anni servivano solo
come magazzino al coperto, stavano per essere chiusi perché il tetto dava segni
di cedimento. Ho sempre pensato che fossero bellissimi. Li esploravo, data la
passione di mio padre per l’edilizia antica. Che è diventata, oggi, anche la
mia passione. E il mio lavoro. Erano massicci, con il timpano triangolare e
quell’occhio centrale, il tutto sovrastato dal cornicione a sbalzo. Erano uniti
da una specie di ballatoio coperto, chiamato “andito”. Le scale interne
erano in pietra serena, praticamente autoportanti.
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Scala interna in Pietra Serena |
Le
ringhiere in ferro battuto. I pavimenti in legno, inchiavardati su grandi travi
di legno. Le colonne erano collegate da longarine in ferro. Così come i muri,
erano costituite da un insieme di mattoni e pietre sbozzate a mano.
 |
Colonne portanti |
«Hai
visto che le longarine non sono nel centro della colonna? Quando hanno fatto la
ristrutturazione del 1956, avevano bisogno di ferro per realizzare il forno a
tunnel, e ne hanno tolta una su ogni lato di ogni colonna».
Scuote il capo Andrea, per l’azzardo
pensato e realizzato. Ma non è questo che ha ucciso la fornace.
 |
Montacarichi, essiccatoio, pianetti |
Dei 40
miliardi, e di quegli degli anni precedenti, pochissimi saranno investiti.
Nessun investimento in tecnologia, pochi in ricerca. Così come tante volte in
passato, la fornace avrebbe dovuto cambiare pelle. Ma questa volta, non ci riesce.
Il cotto smaltato perde mercato in maniera repentina, e nel novembre del 1999
s’inizia a parlare di fallimento.Ho partecipato alla maggior parte
delle riunioni sindacali, per diversi anni, come rappresentante de
i lavoratori.
E ho visto nascere la fine. La fornace era rimasta incastrata nel paese, tanto
che esistevano le Sieci di sopra e le Sieci di sotto. Come adesso le auto sono
in coda, lo erano anche allora.
La fornace iniziava a essere un
problema. Anche se aveva ridotto drasticamente il suo impatto ambientale, era
comunque al centro di un paese e affacciata su una trafficata strada
provinciale. È in quel momento che s’inizia a parlare di spostamento, di
riqualificazione dell’area, di nuova viabilità, di nuovi siti produttivi.
L’area si estende per 33.000 metri quadri, compresi i capannoni storici. Più i
volumi degli stessi. Si valuta anche il ricorso all’edilizia residenziale, per
un ritorno economico degli eventuali investitori privati.
 |
Reparto mosaici |
L’amministrazione
comunale pensa a un uso universitario degli immobili, magari per la facoltà
d’agraria che ben si sposerebbe con questo territorio. Magari in promiscuità
con una grande attività commerciale, e con una parte residenziale che s’integri
con i capannoni monumentali. Anche un piccolo parco e la ciminiera del vecchio
Hoffmann, al centro di una rotatoria. Resterà il migliore dei progetti, anche
per gli anni a seguire. Ma non
basterà ad evitare il fallimento. Subentrerà un nuovo investitore, uno dei
leader in Italia per la commercializzazione dell’argento, che rileverà
l’azienda e, nelle condizioni precedenti e con gli stessi prodotti, riavvierà
l’azienda per spegnerla all’inizio del 2003. Era chiaro che la vicenda e la
vita della fornace, non era più relativa all’attività produttiva, ma riguardava
il carattere residenziale del recupero dell’area.
Eravamo
rimasti in 37, ma provammo a resistere. Presentandoci ogni mattina al lavoro,
 |
Area Laboratorio di Ricerca |
restaurando gli spogliatoi e tenendo gli impianti in ordine. Senza stipendio.
L’amministrazione comunale ci fu vicina e sancì che, per iniziare a parlare di
recupero dell’area doveva essere presentato un progetto di salvaguardia dei
posti di lavoro, in un nuovo sito produttivo. L’azienda passò quindi nuovamente
di mano, rilevata dal più grande gruppo di costruzioni della provincia di
Firenze. Ripartì davvero, anche con slancio, e studiando il modo d’inserirsi
nuovamente nel mercato con nuovi prodotti, grazie a nuove tecnologie. E un
nuovo stabilimento effettivamente fu costruito, proprio vicino al torrente
Vicano, che forniva un tempo il galestro, e dove era sorta, negli anni ’70, una
ceramica che apparteneva allo stesso proprietario della fornace dell’epoca.  |
Il vecchio essiccatoio |
In
qualche maniera si univano e morivano nello stesso momento, perché, proprio
prima del collaudo degli impianti, arrivò fulmineo l’ultimo fallimento, quello
definitivo. Sono passati otto anni. La fornace è
ancora ad aspettare.
Nel frattempo, quello che era un marchio storico, e che
doveva essere legato al territorio e alle attività tipiche della zona, se ne è andato
ad abbellire le confezioni di gres porcellanato di una delle centinaia di
aziende che producono gres porcellanato a Sassuolo.
Quello
che era il nuovo stabilimento è stato smembrato e venduto. Le professionalità
perdute. Rimane solo la fornace.
Che non sta bene. La vegetazione ha cominciato a crescere troppo rigogliosa
sulla sommità dei muri.
Le
piante di fico insinuano le loro radici fra i sassi. Fra poco tempo
cominceranno i piccoli crolli.
 |
Cornicione con piante di fico |
Poi l’acqua continuerà a lavare la
malta. Gli uccelli a portare semi. Ha bisogno d’aiuto. Ha bisogno di una
manutenzione per affrontare il tempo e l’immobilismo di questi anni. Ha bisogno
di coprirsi.
D’impermeabilizzare le parti a
rischio, in attesa che accada qualcosa.
 |
Reparto smaltatura |
Difficile aiutare la fornace. C’è
bisogno di riportare la sua storia sotto i riflettori. Siamo tutti consapevoli dello
scoglio rappresentato dalla bonifica. Un impatto economico non indifferente.
Nello stesso tempo è ormai evidente che, il solo modello di crescita economica,
quello che poi ha condizionato la vita stessa della fornace, non è
perseguibile, se non è affiancato al miglioramento della qualità di vita delle
persone e del paese.
Prima
della chiusura dello stabilimento, a impianti ormai smontati, l’azienda ospitò
una bellissima mostra di pittura.
 |
Mostra di Pittura |
Sarebbe
bello che la fornace diventasse un luogo per eventi culturali. Ma che nello
stesso tempo fosse il punto d’unione delle aziende del territorio, con tutte le
sue molteplici valenze.
O che potesse essere una fucina di startup.
O un luogo
destinato al coworking.
Un luogo dove dare spazio ad associazioni che si
occupano d’accoglienza, d’accompagnamento, d’organizzazione d’eventi e altro
ancora.
C’è comunque bisogno di una sinergia tra pubblico e privato, affinché
ci possa essere un piano economico valido e futuribile. La fornace è la storia
di questo lembo di territorio. E aspetta noi.
Verde
al semaforo.
Pronti.
Partenza.
Paolo
Vaggelli
PDF
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NOTE:
Paolo ha lavorato alla Brunelleschi Spa, dal 1992 al 2011 quando la fabbrica chiuse.
Altre storie brevi di Paolo: https://ilmiolibro.kataweb.it/utenti/454993/paolo-vaggelli/
Alcune foto sono di Paolo e dell'Associazione "Vivere in Valdisieve" - Alcune foto storiche invece sono estrapolate dal VIDEO: L'odissea Brunelleschi, di Paolo Vaggelli. Altro video clip di Paolo Vaggelli: Brunelleschi 2012. Altre sono state recuperate da materiale storico o trovate in internet.
Per esercitare eventuali diritti di copyright su qualcosa che ci può essere sfuggito, si prega di scrivere a vivereinvaldisieve@gmail.com fornendo indicazioni dettagliate sulla foto in questione.
GRAZIE