La vicenda riguardante lo scandalo delle “irregolarità” nelle certificazioni sulle emissioni delle autovetture diesel della casa automobilistica Volkswagen ha risvolti interessanti e anche particolarmente preoccupanti, che sono oggi messi in secondo piano dalla indignazione generale sulle menzogne di chi ha fondato la propria potenza espansiva sulla perfezione tecnologica, costata cara – tra l’altro – a chi quelle autovetture le ha acquistate pagandole più del dovuto. Per comprendere cosa c’è oltre la pur grave “falsificazione” delle prestazioni dei motori è appena il caso di ricordare che il mercato dell’auto negli ultimi anni si è avvalso essenzialmente di campagne pubblicitarie nelle quali, ogni marca automobilistica ha teso a dimostrare le capacità ecologiche dei motori in termini di consumi e di emissioni, con battage pubblicitari dove, qualcuno lo ricorderà, le auto correvano (e corrono tutt’ora) spesso in paesaggi da sogno fatti di boschi incontaminati, di strade immerse in campagne dove ognuno di noi (se potesse) vivrebbe volentieri, di spiagge deserte lambite da un mare colore turchese.
Ma la verità è assai diversa. Le auto, in molte aree significative, corrono tutti i giorni incolonnate lungo arterie affogate di traffico, su autostrade e superstrade che sono spesso le tangenziali delle grandi città e che trasferiscono migliaia e migliaia di pendolari da una parte all’altra del territorio, prima in un senso e poi, alla fine del quotidiano affanno, nell’altro.
Non bastasse tutto questo, molti abitano vicino (spesso troppo vicino) a questi nastri trasportatori di umanità in continuo movimento, perché – per scelta o per convenienza – li abbiamo costruiti dove non avremmo dovuto, dove forse sarebbe stato più opportuno, per dare maggiore dignità ad aeree marginalizzate e degradate, realizzare giardini pubblici e servizi per la collettività, ma non è stato così. La regola è che in nome del progresso possono essere sacrificate anche legittime aspettative di vita. Però, se non possiamo frenare il “progresso”, almeno la responsabilità di decidere come le cose debbano essere realizzate ce la dobbiamo assumere (perché sia garantita la tutela dell’ambiente e della salute pubblica), ed è ciò che abbiamo fatto.
Così almeno credevo fino ad oggi, perché ricordo bene, avendo direttamente partecipato alla valutazione degli effetti ambientali di tali opere, quanto fu complicato e conflittuale il tema della compatibilità tra la realizzazione di una infrastruttura viaria e le garanzie di tutela ambientale e sanitaria delle popolazioni esposte alle emissioni inquinanti ad al rumore.
Se per il rumore la soluzione è stata innalzare barriere (sempre più alte) fino a negare qualsiasi prospettiva (d’altronde qualcuno diceva cinicamente che in quelle situazioni, spesso di degrado, era più importante dormire che affacciarsi sul niente), per la qualità dell’aria la cosa è risultata molto ma molto più complicata.
La complicazione parve, nel caso “fiorentino”, addirittura insormontabile (salvo poi trovare una soluzione “a sorpresa” che solo la fantasia italica poteva partorire). Erano gli anni dal 2005 al 2007 in cui le verifiche sulla qualità dell’aria eseguite dall’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (ARPAT) in tutti i comuni dell’area metropolitana, avevano evidenziato sforamenti dei limiti di legge, che portarono al rinvio a giudizio di molti amministratori pubblici per inquinamento atmosferico da PM10 e biossido di azoto.
Gli sforamenti erano dovuti al cumulo delle emissioni prodotte dalla combustione dei motori lungo l’intera rete infrastrutturale.
Davanti ad un quadro così problematico le valutazioni si affidarono a quelle che allora furono ritenute tre incontrovertibili verità, della cui fondatezza (alla luce dei recenti scandali) è oggi doveroso dubitare:
– la prima riguardò il “parco” dei mezzi viaggianti, che nello scenario all’epoca delle valutazioni fu dalla stessa Società Autostrade per l’Italia definito piuttosto vetusto, e la quantificazione delle emissioni, fondata sulla base di una stima effettuata sul numero dei mezzi, sulla loro cilindrata e sulle caratteristiche dei motori dedotte dalle specifiche tecniche fornite dalle case automobilistiche;
– la seconda si riferì allo scenario futuro (2020), ipotizzando un complessivo miglioramento delle emissioni legato alla progressiva sostituzione del parco macchine viaggiante con mezzi tecnologicamente più evoluti e quindi in grado di inquinare meno rispetto all’attuale;
– l’ultima, la più singolare, a dimostrazione della difficoltà nel trovare soluzione alle equazioni che non tornavano, fu di limitare a 90 km/h la velocità di tutti i mezzi lungo l’autostrada tra Calenzano e Bagno Ripoli, poiché le prove di laboratorio avevano dimostrato che mantenendo il motore ad un regime di giri costante ( corrispondente appunto ad una velocità di 90 km/h) si produceva una quantità di biossido di azoto (no2) che consentiva di mantenere le emissioni sotto la soglia di legge.
Attraverso opportuna segnaletica si sarebbero avvisati i viaggiatori sul limite di velocità imposto in tale tratta autostradale. Ciò generò una evidente contraddizione, per cui, per abbassare le emissioni fino ad un parametro diciamo “sostenibile”, si obbligavano utenti “paganti” a percorrere un tratto di autostrada alle stesse condizioni di una viabilità di livello provinciale.
Da questa breve ricostruzione dei fatti emerge con chiarezza che quelle verità non possono più essere considerate tali, e che chi ha responsabilità di governo non può sottovalutare il problema ma deve affrontarlo partendo anche dalla necessità di dare esaurienti risposte ai seguenti quesiti:
– se i quadri conoscitivi ambientali che hanno costituito la base di tutte le valutazioni sono oggi messi in discussione da quel desolante scenario di illegalità, per cui non è dato di sapere cosa effettivamente emettono molti dei mezzi in circolazione lungo le nostre strade, che valore hanno tutte le autorizzazioni rilasciate e come è possibile effettuare, senza dati certi, le necessarie comparazioni e valutazioni degli effetti cumulativi delle nuove opere quando su uno stesso territorio si concentrano più iniziative inquinanti?
– in applicazione del principio di precauzione, non sarebbe di buon senso (oltreché opportuno) introdurre per i progetti in corso di approvazione una moratoria che consentisse alle amministrazioni competenti in materia di tutela ambientale e sanitaria l’aggiornamento di tutti i dati necessari per una corretta valutazione delle opere?
A queste domande qualcuno dovrà rispondere, perché su questi temi così attuali è legato, secondo l’abusata definizione di “sviluppo sostenibile”, il nostro futuro e quello delle prossime generazioni.
A proposito di Fabio Zita
Fabio Zita, fino al 2014 dirigente del Settore VIA della Regione Toscana, membro della Commissione VIA nazionale, dirige il Settore Paesaggio
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