Associazione Ambientalista a carattere volontario ed apartitica, che si configura quale associazione di fatto. Essa non ha alcuna finalità di lucro. L’area di svolgimento delle attività dell’Associazione è delimitata ai comuni della Valdisieve.

EVENTI 2

  • LABORATORIO RIUSO E RIPARAZIONE A LONDA 

Le attività e aperture del Laboratorio di Riparazione e Riuso di Londa 
sono il mercoledì e il sabato pomeriggio.

lunedì 30 novembre 2015

INTERESSANTI ARTICOLI SULLA CACCIA CHE SI TROVANO SU GREENREPORT


(link all'articolo originale in fondo ad ogni pezzo)
Caro Atc, ma quanto mi costi! Tutti gli sprechi di un ambito territoriale di caccia
Caccia Stelviodi  Giacomo Nicolucci
   
Discutendo della problematica gestionale della specie cinghiale, è stata stigmatizzata la totale inerzia degli ambiti territoriali di caccia che, a dire della l. 157/1992, avrebbero l’obbligo di “provvedere al mantenimento e al ripristino degli habitat naturali favorevoli alla riproduzione della fauna selvatica”, ma che invece appaiono degli enti pubblici lottizzati dalle associazioni venatorie e preposti unicamente al cronico e insostenibile sperpero di denaro pubblico per i costosissimi “lanci di selvaggina”.
La disamina del bilancio consuntivo di un medio ambito territoriale ne è la piena dimostrazione.
E ciò, premettendo, sempre in forza della dannosa e non più sostenibile l. 157/1992, che gli unici enti preposti alla gestione faunistico-venatoria sono le regioni, le province (!) e, appunto, gli ambiti territoriali di caccia (comprensori alpini/riserve comunali, in “Zona Alpi”, ma questi fan quasi storia a parte).
Dunque, mano ai conti (consuntivo 2014)! Quest’ambito preso ad esempio, prevalentemente di media collina, che si estende dal livello del mare sino alla quota base di un parco nazionale senza aree contigue, ove non si svolge alcun prelievo degli ungulati diverso dalla caccia collettiva al cinghiale, in un territorio ove sono state molteplici le ordinanze sindacali di abbattimento di cinghiali, e dove le proteste degli agricoltori sono al calor bianco, riceve a titolo di quote d’iscrizione (in media € 60) dei cacciatori residenti e ammessi 214.000 €. Riceve altresì € 96.000 a titolo di contributi pubblici, di cui ben € 40.000 per la “prevenzione dei danni da cinghiale”. A fronte di tali entrate, la differenza con le spese (per € 220.000) racconta matematicamente di un utile di ben € 95.000.
Gestione virtuosa? No, assolutamente contra legem, posto che il semplice pareggio di bilancio dovrebbe essere perseguito impiegando le risorse per le finalità prioritarie di cui all’art. 14 l. 157/1992, fra cui: “le coltivazioni per l’alimentazione naturale dei mammiferi e degli uccelli, il ripristino di zone umide e di fossati; la differenziazione delle colture; la coltivazione di siepi, cespugli, alberi adatti alla nidificazione, la tutela dei nidi e dei nuovi nati di fauna selvatica nonché dei riproduttori, la collaborazione operativa ai fini  del tabellamento, della difesa preventiva delle coltivazioni passibili di danneggiamento, della pasturazione invernale degli animali in difficoltà, della manutenzione degli apprestamenti di ambientamento della fauna selvatica, l’erogazione di contributi per il risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica e dall’esercizio dell’attività venatoria nonché la erogazione di contributi per interventi, previamente concordati, ai fini della prevenzione dei danni medesimi”.
Invece si trova la spesa di: € 102.000, suddivisa quasi in parti uguali, per l’acquisto di lepri e fagiani; € 22.000 per il pagamento degli stipendi del personale di segreteria; € 21.000 per consulenze; € 15.000 per il “comitato di gestione” (composto quasi nella totalità da rappresentanti di associazioni venatorie, anche qualora nominati da associazioni agricole o enti locali); € 8.000 per la sede; € 6.000 per telefoniche e cancelleria, e così via …
Soltanto € 8.000 sono state spese per le c.d. “colture a perdere”, di cui € 1.000 per l’abbattimento dei “predatori” (volpi, corvidi). Compaiono altre € 8.000 per la “gestione del territorio”, di cui solo € 5.000 per “corsi di aggiornamento” (cioè, ad esempio, corsi abilitanti i cacciatori alla caccia notturna alle volpi).
Fra le altre spese, comunque non vi è traccia di corrispondenza con i dettami di cui agli obblighi gestionali di legge. Basta immaginare il numero complessivo degli Atc in Italia, ben superiore a quello delle province, per rendersi conto della dimensione e della importanza della questione. Pur senza aggiungere alcuna ulteriore considerazione di merito, i numeri parlano da soli.
http://www.greenreport.it/rubriche/caro-atc-ma-quanto-mi-costi-tutti-gli-sprechi-di-un-ambito-territoriale-di-caccia/
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L’Italia e la caccia che non c’è: i cinghiali dissotterrano il cadavere della legge 157/1992
[6 ottobre 2015]
cinghiali
 di  Giacomo Nicolucci

E’ diffusa l’opinione che fra le cause dell’«emergenza cinghiali» in Italia ci sia l’introduzione di ceppi ungheresi, più prolifici e più grandi rispetto al Sus scrofa majori, il cinghiale “maremmano”. L’affermazione è priva di fondamento: basta verificare che nella grande pianura dell’Ungheria, paese ad economia prevalentemente agricola, dove effettivamente gli irsuti suidi arrivano a sfiorare i 300 kg di peso, i contadini non protestano sotto le prefetture, né gli animali frequentano i parcheggi dei supermercati, le vie cittadine o i giardini pubblici.
E così nella maggior parte dei paesi mitteleuropei. Paesi, dove, da secoli, la caccia è quasi sempre ancorata ad un prelievo quali-quantitativo e si fonda su una notevole conoscenza dello stato della fauna (ai maschi adulti di cervo si arriva persino a dare un nome). Nella nostra penisola, per converso, non sappiamo nulla, o quasi, dei tracotanti cinghiali.
Non sappiamo nemmeno quanti ne vengono abbattuti ogni anno, atteso che gli unici dati della gestione faunistico venatoria (con le eccezioni di cervidi e bovidi, ove prelevati), infatti, sono i bugiardini venatori, pardon, i tesserini venatori su cui segnare i capi cacciati.
Salvo pochi studi, con scarsi dati molto localizzati, non abbiamo i contenuti reali per riempire le caselle delle dinamiche di popolazione, delle densità, della struttura, e così di tutti gli altri parametri biologici del cinghiale.
Conoscere è il passaggio che consente di gestire. Se non c’è conoscenza, non ci può essere gestione. E, infatti, laddove la tradizione venatoria, costruita sulla hauptjagd, cioè sulla caccia agli ungulati e ai grandi carnivori, per necessità intrinseca, ha costruito una valida gestione, nel nostro Paese, la caccia vagante e casuale alla piccola fauna stanziale o migratrice non ha posto le basi né per la cultura venatoria né per quella gestionale.
È provocatorio, ma molto veritiero, sostenere che la caccia, in Italia, ancora consiste, per lo più, nell’uscire con il fucile in spalla nella speranza di tirare casualmente a qualche animale. L’icona della domenica di caccia del rag. Fantozzi ha perso soltanto la dimensione numerica, posto che è sceso il numero dei praticanti (più che altro per “cause naturali”) ma non è variata la qualità. Ne è una dimostrazione il dato annuale degli incidenti.
E la l. 157/1992 (il copia-incolla malfatto e con poche modifiche della l. 968/1977) è la norma che incornicia tale stato dell’arte, anzi, che dà forza di legge a siffatta scellerata caccia. Paradossalmente, il testo unico sulla caccia del 1939, che recava soltanto una fotografia normativa delle diverse realtà venatorie italiane, possedeva molti più spunti gestionali, rispetto alla caccia “popolare” che, voluta dalle associazioni venatorie, è percolata sin dal 1967. Nemmeno, la transizione della fauna selvatica, da res nullius a “patrimonio indisponibile dello Stato” ha migliorato qualcosa, dato che appartengono alla stessa categoria di beni pubblici anche le panchine, che vengono divelte, o i cestini dei rifiuti, bruciati.
La l. 157/1992 stabilisce un elenco di specie cacciabili, un periodo di massima di apertura della caccia per ciascuna specie, una serie di divieti per i modi ed i luoghi di caccia, nonché una serie di limitazioni nelle giornate e negli orari, affinché il prelievo, libero, in qualche modo risulti potenzialmente contenuto sulla base dell’effettivo rispetto di queste regole. Tale impostazione si chiama “carniere teorico”, nel senso che si calcola teoricamente il prelievo massimo che ciascun cacciatore, per ciascuna specie e con determinate limitazioni di tempo, luogo, ecc., potrebbe astrattamente riuscire a comporre.
Questo espediente può dirsi funzionante soltanto supponendo un elevato concetto della legalità da parte del cacciatore, nonché assumendo l’esistenza di capillari controlli di vigilanza venatoria. Purtroppo è ben nota la diversa realtà.
E dunque, per una caccia che ha legittimato una predazione illimitata (anzi, limitata soltanto dal calo numerico dei cacciatori e dell’elevata età media degli stessi), unitamente ad una trasformazione degli habitat e ad un loro detrimento (inquinamento, industrializzazione dell’attività agricole, abbandono delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali, consumo del suolo, cementificazione dei fiumi, ecc.), ecco scomparire la piccola selvaggina, stanziale o di passo, che costituiva la caccia “tradizionale” lungo lo stivale. E ciò nella totale inerzia degli “ambiti territoriali di caccia” che, a dire della l. 157/1992 (per aggiornamento della l. 968/1977 alla c.d. direttiva “Uccelli” del 1979), avrebbero l’obbligo di provvedere al mantenimento ed al ripristino degli habitat naturali favorevoli alla riproduzione della fauna selvatica. Gli ambiti territoriali di caccia sono, inutile sottolinearlo, unicamente degli enti pubblici lottizzati dalle associazioni venatorie e preposti al cronico e insostenibile sperpero di denaro pubblico per i costosissimi “lanci di selvaggina”.
Ogni anno un ambito territoriale di caccia investe dalle 150 alle 300 mila euro per tali attività, piuttosto che impiegare lo stesso denaro per miglioramenti ambientali, sfalci, ripristino di zone umide, sostegno all’agricoltura tradizionale (anzi, ai sensi dell’art. 14 comma 14 l. 157/1992, «l’organo di gestione degli ambiti territoriali di caccia provvede, altresì, all’erogazione di contributi per il risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica e dall’esercizio dell’attività venatoria nonché alla erogazione di contributi per interventi, previamente  concordati, ai fini della prevenzione dei danni medesimi»: anche questa disposizione ricade nella generale inattuazione della l. 157/1992, a causa della ingessatura determinata dai ben altri interessi perseguiti delle associazioni venatorie).
Tra questi habitat trasformati e nell’inerzia cagionata dalla l. 157/1992, avallata dalle province e regioni (raramente dotati di competenti uffici di gestione faunistico-venatoria) e strumentalizzata dal cancro parapolitico delle associazioni venatorie, il cinghiale si diletta, giacché la presenza di tante coltivi abbandonati, ridotti ad ampie superfici di vegetazione arbustiva e di macchia, favorisce la loro presenza anche in zone definibili “non vocate”, magari a ridosso di campi dove nutrirsi o di centri abitati dove scorrazzare.
Per giunta, sempre in ossequio alla l. 157/1992, il cinghiale, come se fosse un migratore, viene cacciato sulla base del carniere teorico e con un prelievo illimitato e giammai quali-quantitativo, all’interno di un periodo di massima che nulla corrisponde alla biologia della specie.
Le soluzioni dietro l’angolo, però, esistono e non possono non passare per l’abbattimento e ricostruzione della l. 157/1992, ormai non più rinviabile. E la riforma deve inesorabilmente contemplare che: a) tutto il prelievo venatorio venga strutturato su basi di sostenibilità, e quindi su parametri quali-quantitativi; b) al posto degli ambiti territoriali di caccia vengano costruite delle unità di gestione faunistico-venatorie di piccole dimensioni, cui legare il cacciatore, che va reso responsabilizzato per il proprio operato.
L’operazione legislativa, ovviamente, deve essere compiuta bypassando le associazioni venatorie, i cui obsoleti rappresentanti hanno dimostrato un’indefessa resilienza in nome del mantenimento dello status quo ante; e, pertanto, la riforma deve investire anche il ruolo, i poteri ed i compiti delle associazioni venatorie, in modo da ricondurle in una sfera unicamente privatistica d’interesse e di funzioni.
Frattanto, appare indispensabile l’urgente adozione di un regolamento-tipo nazionale sul prelievo venatorio degli ungulati. E, prima ancora, l’azzeramento degli ambiti territoriali di caccia – che, è evidente, perseguono obiettivi non compatibili nemmeno con la deprecabile l. 157/1992 – disponendo una sorta di commissariamento unico nazionale, deputato all’attuazione di compiti individuati ed unitari di priorità d’intervento nella gestione faunistico-venatoria.
 http://www.greenreport.it/news/aree-protette-e-biodiversita/litalia-e-la-caccia-che-non-ce-i-cinghiali-dissotterrano-il-cadavere-della-legge-1571992/?fb_comment_id=998064423594172_1007565305977417#f124ca2c75c7f42
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Cinghiali in aumento in tutta Europa, ma la caccia non riesce a contenerli

Il caso dei Colli Euganei (e italiano). Ma le ricette per risolvere il problema sono spesso opposte.
[21 maggio 2015]

Cinghiali 0
Secondo lo studio “Wild boar populations up, numbers of hunters down? A review of trends and implications for Europe”, pubblicato su Pest Management Science, i cinghiali si stanno diffondendo rapidamente non solo in Italia: «In tutta Europa, i numeri dei cinghiali sono aumentati negli anni ’60 e ‘70, ma si sono stabilizzati negli anni ‘80; recenti evidenze suggeriscono che il numero e l’impatto del cinghiale è cresciuto costantemente dagli anni ‘80».
Essendo la caccia a principale causa di mortalità per questa specie (Sus scrofa), i ricercatori guidati dalla biologa Giovanna Massei, che si occupa di fauna selvatica per il National Wildlife Management Centre – Animal and Plant Health Agency (APHA) di York, in Gran Bretagna, hanno analizzato gli abbattimenti di cinghiali ottenuti con la caccia e tendenze della popolazione di cacciatori in 18 paesi europei dal 1982 al 2012. Poi i ricercatori hanno utilizzato i dati statistici della caccia e il numero di cacciatori come indicatori del numero di animali e della pressione venatoria e dicono che «I risultati hanno confermato che il cinghiale è aumentato costantemente in tutta Europa, mentre il numero dei cacciatori è rimasto relativamente stabile o è diminuito nella maggior parte dei Paesi». La conclusione è che  «La caccia ricreativa non è sufficiente a limitare la crescita della popolazione di cinghiale e l’impatto relativo della caccia sulla mortalità cinghiale è diminuito. Anche altri fattori, come inverni miti, la riforestazione, l’intensificazione della produzione agricola, l’alimentazione supplementare e le risposte compensative alla pressione venatoria della popolazione di cinghiale potrebbero spiegare la crescita della popolazione.  Dato che le popolazioni continuano a crescere, a meno che non si inverta questa tendenza, sono attesi più conflitti uomo-cinghiale selvatico. Nuovi approcci interdisciplinari sono urgentemente necessari per mitigare i conflitti uomo-cinghiale, che sono altrimenti destinati a crescere ulteriormente».
Michele Favaron, del Gruppo d’Intervento Giuridico – Padova, fa notare una contraddizione – peraltro rilevata spesso sulle pagine di greenreport.it riguardo alla situazione toscana –  che è questa: «Ci aspetteremmo che ciò stia in un rapporto inversamente proporzionale con il numero di cacciatori. In poche parole: più cacciatori, meno cinghiali; più cinghiali, meno cacciatori. Fuorviante semplificazione».
Favaron fa l’esempio del Veneto, «Dove è stato sfornato un esercito napoleonico di “selecontrollori” (cacciatori) per la caccia al cinghiale? Come giustificare 15 anni di fallimenti dei piani di abbattimento dei cinghiali sui Colli Euganei? Come discolparsi per quasi diecimila animali uccisi in un un’area naturale protetta”? Come scusare milioni di euro sprecati e l‟aver permesso a 67 cacciatori locali di sparare nel Parco? Come motivare l’impiego a tempo pieno dei 30 operai forestali regionali (ora, per giunta, lasciati a casa) per dare la caccia ai cinghiali sui Colli Euganei? Come rileggere i proclami di Coldiretti e CIA che chiedevano (e chiedono!) di sparare di più? È chiaro come il sole (e lo era già da anni!) che la caccia, con tutto il suo bagaglio di corruttele, torbidità e totale assenza di rigore metodologico, non poteva e non può essere una risposta al contenimento numerico dei cinghiali, così come dei daini dei Colli Euganei. Leggere correttamente i dati delle uccisioni dei cinghiali sui Colli Euganei ammoniva da tempo, non solo sull’inefficacia dalla caccia, ma addirittura sull’aggravamento della situazione dovuto ad essa».
Favaron forse generalizza ed altre esperienze sembrano aver avuto più successo, ma la morale della favola che v ne trae per quanto riguarda la situazione he sembra conoscere meglio è  che «Da febbraio 2015 l‟Ente Parco Colli Euganei ha svuotato completamente le proprie casse e non ha più un soldo da dilapidare per ammazzare quasi un migliaio di cinghiali all’anno. I 30 operai forestali regionali, impiegati in “nobili” operazioni di abbattimento e di trasporto degli animali selvatici al macello, non sono stati riassunti dalla Regione Veneto. I cinghiali si possono contattare facilmente anche nelle zone più esterne del Parco: Abano e Montegrotto Terme ad esempio. E il vicepresidente del Parco, Lucio Trevisan, cosa fa? Va in Prefettura a chiedere l’impiego degli agenti del Corpo Forestale dello Stato e della Polizia provinciale (già irreperibili per emergenze e compiti di loro competenza) nonché lo stanziamento di altre somme di denaro e l’assunzione di altri uomini per…sparare ai cinghiali!»
Favarn conclude riproponendo una misura controversa e che molti – anche tra gli ambientalisti – ritengono troppo dispendiosa e inefficace, soprattutto per l’immediata protezione della biodiversità duramente colpita dalla presenza di cinghiali introdotti nelle aree protette: «Rimangono invece inascoltati e da sempre derisi tutti gli appelli e le proposte dei protezionisti che, ormai da tempo chiedono, ad amministratori, politici e a tutta la collettività, di destinare risorse e denaro unicamente al controllo della fertilità degli ungulati: efficace, duraturo, incruento e perfino più economico sul lungo periodo! (spesso le uniche azioni sensate hanno programmazione, durata ed efficacia pluriennale). Ma del resto, cosa potremmo aspettarci: proprio come gli economisti che incitano ad “uscire dalla crisi” con le stesse ricette che la crisi l’hanno causata; allo stesso modo il vicepresidente Trevisan propone di “aumentare la dose di droga”, non di smettere di prenderla».

Riportiamo anche uno dei commenti fatti su greenreport al link originale sotto:
commento di Guido Nassi (Lavora presso CNR Pisa)
Uno studio scientifico di ricercatori francesi ha seguito per un periodo di 22 anni la moltiplicazione dei cinghiali in un territorio del dipartimento Haute Marne, in cui sono sottoposti ad una caccia molto intensa, confrontandola con quella di un territorio con un numero inferiore di cacciatori nei Pirenei.
E' risultato che la fertilità dei cinghiali è notevolmente più alta quando sono sottoposti a pressione venatoria elevata.
Inoltre quando la caccia è intensa la maturità sessuale viene raggiunta più presto, prima della fine del primo anno di vita, quando i cinghiali hanno un peso medio inferiore. Invece, nei territori in cui sono presenti pochi cacciatori la moltiplicazione dei cinghiali è minore, e la maturità sessuale viene raggiunta, con un peso medio più elevato (S.Servanty er al., Journal of Animal Ecology, 2009) *


*Abstract

Keywords:

  • capital–income continuum;
  • life-history tactic;
  • proportion of females breeding;
  • Sus scrofa;
  • ungulate

Summary

1.  Identifying which factors influence age and size at maturity is crucial for a better understanding of the evolution of life-history strategies. In particular, populations intensively harvested, hunted or fished by humans often respond by displaying earlier age and decreased size at first reproduction.
2.  Among ungulates wild boar (Sus scrofa scrofa L.) exhibit uncommon life-history traits, such as high fertility and early reproduction, which might increase the demographic impact of varying age at first reproduction. We analysed variation in female reproductive output from a 22-year long study of an intensively hunted population. We assessed how the breeding probability and the onset of oestrus responded to changes of female body mass at different ages under varying conditions of climate and food availability.
3.  Wild boar females had to reach a threshold body mass (27–33 kg) before breeding for the first time. This threshold mass was relatively low (33–41% of adult body mass) compared to that reported in most other ungulates (about 80%).
4.  Proportions of females breeding peaked when rainfall and temperature were low in spring and high in summer. Climatic conditions might act through the nutritional condition of females. The onset of oestrus varied a lot in relation to resources available at both current and previous years. Between none and up to 90% of females were in oestrus in November depending on the year.
5.  Past and current resources accounted for equivalent amount of observed variations in proportions of females breeding. Thus, wild boar rank at an intermediate position along the capital–income continuum rather than close to the capital end where similar-sized ungulates rank.
6.  Juvenile females made a major contribution to the yearly reproductive output. Comparisons among wild boar populations facing contrasted hunting pressures indicate that a high demographic contribution of juveniles is a likely consequence of a high hunting pressure rather than a species-specific life-history pattern characterizing wild boar.  (QUI Pdf)

fonte articolo: http://www.greenreport.it/news/aree-protette-e-biodiversita/cinghiali-in-aumento-in-tutta-europa-ma-la-caccia-non-serve-a-contenerli/

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