La Regione Toscana nel 2011 ha emanato il Regolamento di attuazione della L.R. 59/2009 Norme per la tutela degli animali.
Tale Regolamento stabilisce
le misure dei box per i cani dei privati in 8 mq. per tre cani e sanzioni
da 100 a 600 euro per il mancato adeguamento, adeguamento che è stato prorogato
di 2 anni, fino al luglio 2013.
Naturalmente
quasi nessuno si è adeguato, in particolare i cinghialai (cacciatori di
cinghiali) che hanno mute di 30-40 cani (non certo Chihuahua, Alani o San
Bernardo che portano a sostegno fuorviante delle loro tesi). Invece
di rispettare il Regolamento e applicare le sanzioni stabilite, il Consiglio
regionale, all'unanimità, ha teso le braccia, la coscienza e la legge a
tali cacciatori approvando la mozione 805 il 24 settembre 2014 che
dimezzerebbe lo spazio.
Tale mozione
si regge (meglio barcolla) su una norma inammissibile: la Direttiva 2010/63/UE
del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 settembre 2010, sulla
protezione degli animali utilizzati a fini scientifici. A meno che i cani dei
cacciaotri non siano equiparati ai cani da sperimentazione, tale
riferimento è ingannevole quindi da rigettare per infondatezza a meno che le
pratiche mediche utilizzate dai cacciatori quando un cane viene ferito dal
cinghiale (suture, incisioni, dilatazione di ferita, ricollocazione di
organi fuoriusciti dal proprio alveo, pinzatura di vene e arterie per bloccare
emorragie....il tutto senza anestesia) non si voglia configurare come
vivisezione.
Ma perchè i
cinghialai si sono opposti, dopo due anni, all'originaria norma per la
misura dei box ?
Semplice,
perchè non hanno mai considerato che i cani fossero cani, ovvero quegli
animali "che hanno
percorso con noi il cammino dell'evoluzione, con i quali ci siamo
influenzati reciprocamente in modo molto più profondo di altre due specie
qualsiasi; gli unici con i quali abbiamo condiviso la capacità di amare.
Attraverso il rapporto con i cani ci siamo trasformati gradualmente da ominidi
primitivi in membri della specie Homo sapiens...."(Jeffrey
Masson). Li hanno considerati e li considerano strumenti della loro
attività.
Infatti:
in
Toscana, ovunque ci si
muova, si faccia una passeggiata, si passi in macchina, ai bordi dei paesi,
alle periferie delle città, in mezzo ai campi, nelle pinete e nella macchia,
isolate, nascoste, si incontrano baracche di legno putrido e lamiere, protette
da cancelli, circondate da reti, oscurate da teli verdi, inaccessibili alla
vista se non fosse per le fessure e gli squarci.
In
ognuno di questi canili abusivi, che sono centinaia e centinaia, vengono
rinchiusi cinque, dieci e anche più cani.
Sono
i cani da caccia, ectoplasmi, larve, usati per la caccia soprattutto al
cinghiale.
Cani
lasciati soli, prigionieri di gabbie di un metro e mezzo per due con tre o
quattro animali, costretti al letargo forzato tutto il giorno e tutti i giorni per
l'intero periodo di chiusura della caccia. Ci sono cani rinchiusi in box
completamente al buio, come murati vivi.
Il
sole crea temperature insopportabili d'estate e i cani non hanno difesa neppure
all'ombra delle basse, spesso inconsistenti tettoie dove il calore ristagna a
causa delle lamiere da cui sono circondati. A volte la tettoia è tanto piccola
e trasparente da permettere un'ombra illusoria.
Ma
ci sono cani che non hanno neppure questa protezione e sono sottoposti al sole
diretto perchè legati a catena fissa, corta poco più di un metro, la quale
consente loro soltanto di saltare dal tetto della cuccia fino a terra e
viceversa. Questi cani sono costretti a cercare un'impossibile sollievo
stringendosi alla parte in ombra della loro cuccia o scavando una buca,
profonda al massimo quindici centimetri, sotto di essa.
Le
cucce sono ripari rudimentali di legno marcio e infetto, bidoni di lamiera,
oggetti precari, qualcosa di indefinibile e incompleto. I recinti sono
fatiscenti, messi insieme con materiali di ogni tipo, anche lamiere di eternit,
senza attenzione per gli spunzoni di ferro che possono ferire (casi di cani
dilaniati); le fogne sono inesistenti, gli escrementi e i resti di cibo
putrefatto si ammassano sul terreno che non può essere decentemente lavato
perchè manca di pendenza, di pavimentazione, di scoli. La derattizzazione viene
effettuata senza precauzioni (si notano cumuli di sostanze chimiche ai bordi
dei recinti) e i topi avvelenati catturati dai cani possono risultare a loro
volta venefici (casi di cani morti).
L'ambiente
dove sono ammassati i cani risulta pertanto un luogo igienicamente precario, un
pericoloso serbatoio di microbi per gli animali e per l'uomo.
Ma
sapendo quanto grande sia il bisogno di bere per i cani, considerando
soprattutto le condizioni in cui sono costretti a vivere, colpisce in modo
particolare l'assenza dell'acqua e, quando se ne scorga un po' in fondo ai
secchi, questa si presenti gialla e putrida.
Sono
quasi del tutto assenti i recipienti per il cibo. Pagnotte di pane secco e
pezzi di pizza giacciono per terra tra gli escrementi.
Eccezionalmente
si distinguono nella polvere resti di crocchette e, ancora più eccezionalmente,
pastoni di pane bagnato con avanzi di pomodoro, piselli e bucce di mele.
La
cosa che più sconvolge è però la solitudine, la segregazione di questi animali,
l'isolamento fisico e psicologico, la mancanza di rapporti e di contatti con
l'uomo, la costante inedia, il tedio, la cupa tristezza che si legge nei loro
occhi.
Come
potrebbe essere altrimenti? Esclusa la caccia invernale, la loro esperienza di
vita è unicamente quella catena o i pochi metri di terra sporca.
Il
giorno e la notte, il sole e la pioggia cadono inesorabili su quella catena e
su quella polvere e la presenza umana limitata al nutrimento (?) e alla
pulizia (?) si consuma in una manciata di minuti neppure tutti i giorni.
Un
estraneo che si avvicini ai recinti riscontra all'inizio atteggiamenti
aggressivi, denti in mostra, abbaiare furioso, salti contro le reti, a volte
schiumare dalla bocca. Ma, man mano che ci si accosta, i cani si
ritraggono, quasi fuggono, coda tra le gambe, il loro atteggiamento
diviene timido, di soggezione, temono perfino un gesto di carezza. Sono
contemporaneamente aggressivi e paurosi e questo suggerisce l'idea che vengano
trattati duramente dai proprietari sia per l'addestramento alla caccia, sia per
insensibilità e spietatezza.
Stremati
dai tanti pasti saltati, dalle tante ferite riportate, dalle tante
cucciolate partorite, dalle tante angherie sopportate, questi cani sono il
simbolo della patologia umana che accompagna la caccia riconosciuta tale
da psicanalisti quali Emilio Servadio e Karl
Menninger, dalla psicologa Carla Corradi, e dall’antropologo Sherwood L. Washburn.
Il
concetto di benessere animale, secondo i parametri fisiologici, ecologici ed
etologici suggeriti da vari studiosi e presi in considerazione dalle norme in
vigore, per questi cani non soltanto viene ignorato ma arrogantemente
sostituito da un attivo, costante e consolidato maltrattamento. E la legge
189/2004?
Per
quanto sopra riteniamo impudente stravolgere una norma che è già un regalo. Per
noi, non per il cane.
Grazie
dell'attenzione.
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